Lo scorso 7 settembre è uscita su Netflix la nuova stagione della docu-serie Chef’s Table, con sei episodi inediti interamente dedicati al piatto più amato e celebre del mondo: la Pizza.
La nuova serie non parla molto di impasti , ma soprattutto di storie di pizzaioli, per cui anche se non siete grandi appassionati di pizza, va bene uguale
Questa stagione raccoglie sei puntate che hanno come protagonisti 6 chef pizzaioli, che lavorano in Italia, Stati Uniti e Giappone. La durata media dei singoli episodi è di 45 minuti.
Le 6 puntate sono state rese disponibili contemporaneamente il 7 Settembre e hanno come protagonisti in questo ordine: Chris Bianco (Stati Uniti), Gabriele Bonci (Italia), Ann Kim (Stati Uniti), Franco Pepe (Italia), Yoshihiro Imai (Giappone), Sarah Minnick (Stati Uniti).
Per guardarle non serve seguire un ordine preciso, perché ogni puntata è una storia che basta a sé stessa, ma serve un abbonamento a Netflix che distribuisce Chef’s Table dalla prima stagione.
Ora ti dico qual’è il mio pensiero nel merito.
È un bentornato
Chi conosce un po’ Chef’s Table sa che l’uscita di una nuova serie è un evento. Alcuni dei partecipanti delle precedenti stagioni (come Ana Roš) hanno raccontato di come il programma abbia regalato loro una fama mondiale.
Il fatto che proprio a questo punto si parli di pizza non è casuale e rappresenta una grande opportunità per raccontare da una nuova prospettiva, più riflessiva e ideologica, l’evoluzione contemporanea della pizza, il superamento della tradizione verso una nuova identità.
Poca farina, mozzarella e pomodoro, ma agricoltura, territorio, tanta famiglia e storie personali.
Questo è sicuramente un momento fortunato per la pizza nel mondo, perché i riflettori si sono accessi su un mercato che fino a poco tempo fa veniva considerato di serie b, commerciale, massivo, un’altra storia rispetto all’alta cucina.
Una docu-serie questa di Chef’s Table che piace sia ai nerd della cucina (la nicchia) che a chi non è molto direttamente interessato all’argomento (il grande pubblico).
La nuova serie sulla pizza infatti parla molto più di cio che gira intono alle vite dei protagonisti che di pizza. La pizza è un veicolo per raccontare le storie degli chef coinvolti nella narrazione. Alla base di tutto c’è il vissuto, le esperienze personali e il percorso, spesso tormentato, che ha portato ciascuno chef a un punto di svolta e poi di riuscita
La pizza certamente fa da collante a questo percorso, ma potrebbe essere anche – parlo per assurdo – il golf, il giornalismo, la matematica – ed è un elemento funzionale a dimostrare che dietro ogni chef c’è un uomo o una donna che hanno sofferto per affermare sé stessi tramite il proprio lavoro e tramite il proprio prodotto.
Nei vari episodi, per familiarizzare con la pizza bastano pochi elementi di contesto, immagini di grande impatto e interventi di giornalisti e familiari che incorniciano le storie e ne spiegano i passaggi fuori schermo.
Il focus sul fattore umano apre le porte a una narrazione fatta di empatia, di sofferenze, di cadute, di cambi di programma, di rinascite in cui l’unico elemento narrativo veramente problematico è l’appiattimento.
Mentre gli episodi scivolano via è sorprendente notare, nonostante le specificità, quanti elementi in comune abbiano i protagonisti da un lato all’altro del mondo, quanto le loro storie siano simili.
Ogni puntata sembra infatti rispondere a un unico plot in cui si alternano crescita, caduta e risurrezione in un percorso di formazione che prende spunto da generi letterari consolidati come l’epica e la favola.
C’è una frase di Franco Pepe molto indicativa in questo senso: “Solo con il successo, io potevo riscattarmi” dice. Ed è una dinamica ben presente in tutte le serie di Chef’s Table che qui ha trovato particolare fortuna.
Peccato che colui che viene considerato uno dei migliori pizza-chef del mondo nel parlare del suo modo di fare l’impasto e la pizza più in generale, parla di mani (uno dei tratti distintivi della sua pizza è quello di fare l’impasto a mano, non utilizzando impastatrici) e la testa, mancando di aggiungere la parola cuore!
Che magari metterà certamente a suo modo nel suo operato, ma nelle diverse occasioni in cui ha avuto modo di ripetere i concetti sopra citati, ha sempre mancato di pronunciare la parola cuore.
Dimenticando forse il detto di San Francesco d’Assisi, Santo Patrono d’Italia, (festeggiato pochi giorni fa), che recitava così:
Chi la lavora con le mani è un operaio.
Chi lavora con le mani e la testa è un artigiano.
Chi lavora con le mani, la testa e il cuore è un artista.
Quale sicuramente lui è, ma peccato non ne abbia avuto compiutezza!
La questione specificatamente partenopea della pizza è stata in questo contesto risolta con un giro di battute e una manciata di secondi: perché qui c’erano due storie che avevano l’urgenza di essere raccontate e che il pubblico di Chef’s Table poteva capire e amare.
Non solo due pizzaioli che hanno acquisito fama internazionale nel proprio mestiere.
Ma in questo senso specialmente la puntata dedicata a Gabriele Bonci è un piccolo capolavoro, documentaristico-cinematografico, sebbene non privo di distorsioni, perché ha lavorato sul filo del rasoio per costruire un difficile equilibrio tra il detto e il non detto.
Raccontando una complessità umana disarmante con un linguaggio accessibile, le ombre e le luci del personaggio e della persona in modo che potessero essere decifrate anche da chi ha solamente il ricordo del personaggio televisivo.
Con Bonci si è rinunciato a una narrazione troppo anestetizzata, anche se teatrale come del resto teatrale è l’uomo, per lasciare un finale aperto che restituisce una visione autentica, nei limiti del consentito per un programma TV made in United States, che a me personalmente ha molto entusiasmato.
L’episodio dedicato a Bonci, comincia con una tv accesa in una stanza buia, Gabriele che guarda alla tv le sue apparizioni alla Prova del Cuoco di una ventina di anni fa accanto ad Antonella Clerici.
Racconta il suo passato da cuoco, la scoperta delle materie prime, del loro valore, l’intuizione di voler usare la pizza come messaggera di contenuto, la sua rivoluzione della pizza romana che da junk food acquisisce dignità, grazie ad ingredienti e preparazioni complesse.
Si parla si pizza gourmet, di supplì alla carbonara, delle intuizioni, delle difficoltà iniziali, della consacrazione di Vogue America con la definizione di Michelangelo della Pizza.
Bonci parla e spiega: «Io non sono un pizzaiolo, io faccio agricoltura. In ogni morso ci sono metri quadri di terreno coltivato». La pizza nella mente di Bonci è mezzo di comunicazione, un richiamo ad un consumo etico, una rivoluzione non solo di gusto ma per la vita reale.
«La pizza è un mezzo, non un fine, un pensiero: mangiare è un gesto agricolo». (Così come lo è per me, ma declinato in maniera rigorosamente abbruzzese con due b).
Capisci tutto il valore del suo lavoro, della scia che ha lasciato, ma la narrazione si intervalla con quella personale, il dramma della notorietà, l’essersi sentito intrappolato nel personaggio del “gigante della farina”, la droga, l’alcol, la rinascita grazie all’operazione che nel restituirgli un nuovo corpo gli sta permettendo di curare l’anima.
A questo punto non voglio rivelarti altro, se non invitarti a vedere tutti gli episodi, in primis quelli dedicati ai nostri due eroi nazionali.
Anche se di molti altri eroi avremmo da raccontare, che stanno facendo della nostra pietanza popolare e piatto nazionale per eccellenza, una vera e propria star mondiale.
Ma per questi, bisognerà aspettare una prossima serie … magari di una Web TV.
Fonti: Dissapore, La Cucina Italiana e Garage Pizza.
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